‹Oskar, dove mi porti?› gli dico guardandolo negli occhi azzurri
‹Fidati› mi risponde con il suo italiano esotico, impreziosito dalla cadenza svedese
‹Vabbé. Tu sai che ho lavorato stanotte e sono stanco› faccio finta di lamentarmi io.
‹Fatti portare. Enjoy the flight› accenna ad un sorriso.
‹Faccio tutto quello che vuoi. Non ho neanche la forza di dirti di no.›
In realtà farsi portare è una delle cose più piacevoli della vita, soprattutto quando sei in compagnia di una persona che ti legge nel pensiero.
Il crepitio del pietrisco sotto i piedi e il vento fresco sul viso. Proprio quello che cercavo. Una notte insonne, fatta di alcol strofinato sulle braccia. Il suono del respiro che attraversa la mascherina. Finalmente fuori.
Oskar è un collega più giovane, più attivo, più bravo e più colto.
Io? Sono quello che si riscalda di questa luce; quello che vive il bello di questa intensa amicizia.
Capisci che la Primavera è in arrivo perché inizi a percepire l’odore delle foglie bagnate ai margini del sentiero sotto a Lövsängsvägen, la strada dietro casa. Oskar dice che è una antichissima strada che mille anni fa separava il Bosco di Vårdsätra dal lago Ekoln.
Anno dopo anno l’acqua si è ritirata o forse la terra si è sollevata. E l’acqua non c’è più. Il lago è andato via, lasciando il posto ad una distesa di verde accecante. Finita l’Era Glaciale, i ghiacciai si sono dissolti e la terra è rimbalzata fuori, non più schiacciata dal loro peso. Scivolando sul dorso del ghiaccio si sono arenati dei giganti pietroni, massi erratici rimasti soli in mezzo alla campagna.
Quindi Lövsängsvägen separa il bosco da un immenso prato.
La strada piega in basso e poi leggermente a sinistra.
Þorgisl ok Gisl letu ræisa stæin æftiʀ Svæin, fa[ður] sinn.
Runsten U899
Oskar mi fa: ‹Eccola qui!›
‹Ma cosa?› guardandomi attorno
Ora la vedo. All’ombra di un grande albero riposa una pietra runica. Grande e solitaria. Sta qui da circa mille anni.
Inciso c’è un serpente attorcigliato in cento spire attorno alla prua di una nave vichinga ed una croce.
Sul margine, a caratteri runici:
Þorgisl ok Gisl letu ræisa stæin æftiʀ Svæin, fa[ður] sinn.
Che diavolo vorrà dire? Che senso ha? A naso sembra una iscrizione di età vichinga. Ovviamente io non conosco il norreno. A malapena un po’ di svedese moderno. La presenza della croce indicherebbe che è stata scolpita dopo l’arrivo del Cristianesimo da queste parti. Mi aiuta la lastrina di metallo scritta da quelli del Riksantikvarieämbetet.
Recita: Þorgísl e Gísl hanno eretto questa pietra in memoria di Sveinn, loro padre.
Oskar mi racconta che i vichinghi hanno lasciato poche tracce scritte. Le pietre runiche sono tra queste. Sono chiangoni solitari in mezzo alla campagna, fermi da mille anni. Qualcuno si prese la briga di cercarle, di spostarle e di metterle in piedi dove si potessero notare.
‹Guardala bene› mi dice ‹racconta la storia di una famiglia. Qui non si parla di principi e re ma di persone normali. Queste pietre erano scolpite per ricordare un amico o qualcuno della famiglia.
‹Qualcuno che era partito e che non era più tornato. ›
‹O qualcuno che era partito e poi era arrivata la notizia che fosse morto. ›
‹Erano sistemate nei posti dove si passava. Una strada importante, vicino ad un ponte, all’ingresso di una città›.
‹Mille anni fa si camminava piano quindi era difficile non vederle›.
E anche io che passavo su questa vecchia strada sul limitare del bosco mi ero fermato a leggere il nome di quest’uomo che non c’era più.
‹Gisl? Ma che strani nomi che avete…› penso ad alta voce. Un po’ per stanchezza, un po’ per noia, non mi veniva niente di più intelligente da dire.
Oskar mi guarda, socchiude gli occhi azzurri e sorride:
‹Ti devo raccontare una storia. Non ora però.
Anzi, facciamo una cosa. Che fai dopodomani?›
Ed io: ‹Devo lavorare›
Oskar: ‹Cerca di liberarti. Ti voglio portare in un posto che ha a che fare con la tua terra.›
Sorrido. ‹E’ possibile avere una anticipazione?›
E lui, compiaciuto dall’avermi in pugno: ‹No: ne parliamo dopodomani›.